25 Novembre 2024
Il fatto

Il drammatico fenomeno del revenge porn. Un articolo di Claudia Cammarata

 

(Foto tratta dal web)

La violenza contro le donne continua ad essere un tema drammatico, sul quale indirizzare l’attenzione ben oltre il 25 novembre. Oggi riportiamo agli onori delle cronache il triste fenomeno del revenge porn, pubblicando l’intervento della presidente di Attivarcinsieme, Claudia Cammarata.

«Revenge porn, tradotto in italiano vendetta porno.

In Italia è un termine che è entrato in uso solo in tempi recenti, precisamente nel 2016 quando una donna napoletana, Tiziana Cantone di 33 anni si è uccisa dopo che il suo ex fidanzato aveva diffuso un video che la ritraeva durante un atto sessuale. Il caso, inizialmente archiviato come suicidio, è stato riaperto dopo che la madre di Tiziana si è rivolta ad investigatori privati e ha trovato nuove prove sui responsabili degli orrendi atti vessatori che hanno indotto la figlia a togliersi la vita.

Il recente fatto di cronaca che ha colpito la giovane maestra di Torino ha riportato alla ribalta non solo questo termine e il problema sempre più diffuso che esso rappresenta (voglio ricordare che il revenge porn è diventato reato solo nel 2019), ma anche e soprattutto una concezione molto diffusa tra l’opinione pubblica che considera una colpa l’atto sessuale in sé e la libertà con cui è vissuto mentre la diffusione senza il consenso di chi di quel video o immagine è protagonista una normale, quasi giusta conseguenza della propria “spregiudicatezza”. O chiamiamola libera scelta di vivere la propria sessualità.

Dopo la denuncia questa giovane donna è stata messa alla gogna mediatica, minacciata, umiliata dai genitori dei bambini di cui era insegnante (il padre di uno di loro aveva ricevuto il video nella chat del calcetto proprio dall’ex fidanzato), licenziata dalla dirigente scolastica.

Come fuoco in una sterpaglia si sono diffuse le parole di disprezzo che non solo erano mirate a demolire la donna vittima dell’abuso ma anche a screditarne la professionalità.

In tutta questa vicenda ciò che salta all’occhio è un fatto ben preciso, fuori dal tempo se consideriamo che corre l’anno 2020 e che di battaglie per l’emancipazione delle donne ne sono state condotte tantissime negli ultimi decenni: ad essere messa sul piatto della bilancia e condannata è la sessualità femminile, quella sfera privata che, pur in presenza di un abuso, diventa metro di giudizio pubblico sulla persona, sulla sua moralità e professionalità.

Finché la sessualità (femminile) sarà considerata sporcizia e motivo di vergogna e l’abuso la sua diretta conseguenza e non un crimine, finché alla gogna sarà messa la vittima e non il carnefice non dovremo meravigliarci se i nostri figli non saranno in grado di distinguere il bene dal male e costruire relazioni sane basate sul rispetto (che viene ancora prima dell’amore). La maestra non può fare “certe cose” per svolgere il proprio compito di educatrice ma è perfettamente normale che un padre e i suoi amici si scambino foto e filmini rubati durante un momento intimo sulla chat del calcetto. L’educazione sessuale nelle scuole è ostacolata perché i bambini e i ragazzi non devono affrontare argomenti che potrebbero scandalizzarli mentre in casa è normale che vengano messi di fronte a programmi televisivi volgari e fuorvianti e siano lasciati in balia di sé stessi nella scoperta della sfera sessuale.

Oltre a dover lottare contro atti criminosi che colpiscono la nostra dignità di esseri umani è vergognoso che dobbiamo anche ritrovarci a fare i conti con una società che di quella violenza è generatrice, culla. Complice.

Complice quando “La colpa è tua, donna, che hai scelto di vivere in questo o in quest’altro modo la tua vita sessuale”.

Complice quando “Le maestre devono educare, non fare sesso”.

Complice quando “Sei ingenua perché hai accettato di farti riprendere mentre facevi sesso”.

Complice quando “Sei stupida perché ti sei fidata”.

Complice quando “Se accetti di farti filmare è normale che devi accettare come conseguenza che tra uomini si diffondano quelle immagini”.

Quante parole, quanti silenzi sono complici delle violenze che subiamo?»

 

 

 

 

 

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