Il teatro nella nostra provincia? Ne parliamo con Michele Celeste
C’è chi lo ricorda su Rai 1 per aver recitato nella fiction tv La mafia uccide solo d’estate o come attore in Distretto di polizia. Queste sono solo due fra le esperienze dell’attore sancataldese Michele Celeste, sulla scena da ben trent’anni. L’intervista è troppo lunga per una testata online ma abbiamo deciso di pubblicarla integralmente perché vale la pena di leggerla.
Partiamo dall’ultimo lavoro al quale hai preso parte, U Chiantu, il docufilm per la regia di Aldo Rapè e Andrea Valentino. Cosa c’è alla base di questo road movie per le campagne della nostra provincia?
Cosa ci possa essere alla base de ’U Chiantu bisognerebbe chiederlo a chi ha scritto e diretto il docufilm e cioè Andrea Valentino ed Aldo Rapè. Posso dire di come siano andate le cose per quanto mi riguarda. Avevo già lavorato con Andrea Valentino quando abbiamo girato il videoclip Li Culura del cantautore Mario Incudine, regia di Davide Vigore. Lì ho interpretato il Mimo, un cameo definito dalla critica “figura ilare e poetica”. Il videoclip ha incassato premi e riconoscimenti in ambito nazionale, tra cui una menzione speciale per il sottoscritto. Andrea Valentino mi aveva visto anche nel mediometraggio Cortorcircuito, una delle opere prime dello stesso Davide Vigore, lì interpretavo il ladro Agatino Pulvirente. È stato Andrea a propormi ad Aldo Rapè. All’inizio Rapè aveva in mente un cast composto da attori noti nel mondo del cabaret siciliano con alle spalle sporadiche esperienze cinematografiche. Ma le trattative andavano per le lunghe e non si capiva bene il perché. Da qui avanzai la proposta di lavorare con attori del territorio: “E’ una storia nissena? Caspita! Noi abbiamo attori di grande spessore: Giorgio Villa, Attilio Ferrara, che ha al suo attivo anche numerose interpretazioni cinematografiche, ed altri nomi ancora”. Devo dire che Rapè ha colto al volo il suggerimento, credo che l’idea gli fosse già balenata in mente tant’è che nel cast aveva già previsto Alessandra Falci. Forse aspettava un input, un qualcosa o qualcuno che lo spronasse, lo incoraggiasse. Il set è stato veramente un pullulare di attori, comparse, figurazioni, maestranze ed apprendisti per lo più della provincia di Caltanissetta. ’U Chiantu per me assume un grande valore affettivo al di là di ogni discorso legato alla vicenda mineraria: è un documento filmico dove appaiono tre veterani delle scene non ancora rimbambiti del tutto, Giorgio Villa, Attilio Ferrara ed io. Tutti della provincia di Caltanissetta. Quasi quasi metterei anche Vincenzo Volo, pure lui ha qualche capello bianco. Un film è come un libro, è lì e rimane per sempre. Chapeau!
Secondo te, nel lungo periodo, Caltanissetta ha rimosso il suo passato minerario?
Mio nonno paterno era un picconiere. Ha lavorato in miniera fin da ragazzo. Mio zio Marco, suo figlio nonché fratello maggiore di mio padre, era un meccanico addetto alle pompe di sollevamento, in miniera. La famiglia di mio zio Sasà, marito della sorella di mio padre, dopo una vita di duro lavoro aveva rilevato in gestione una piccola miniera di zolfo, a San Cataldo. La nostra è una storia comune a quella di tante altre famiglie nissene. Erano gli anni in cui i “signori” avevano estratto tutto il possibile dal sottosuolo e adesso era venuto il momento di spremere fino all’ultima goccia di sudore, famiglie intere (compresi gli adolescenti) di zolfatai, spinti dal bisogno e abbindolati dal sogno di diventare piccoli padroncini, in realtà costretti a pagare esosi canoni per l’estrazione dell’oro giallo.
Durante la prima de ’U Chiantu, a sorpresa, era presente in sala il figlio di un minatore morto nel ’58 a Gessolungo. Lui neanche ha conosciuto suo padre. Questi esempi per dire che l’odore acre dello zolfo e il sapore amaro del pane noi ce lo portiamo addosso e lo assaporiamo ancora.
Mi chiedi se Caltanissetta ha rimosso il suo passato minerario? Non credo. Il passato non si rimuove. Lo abbiamo metabolizzato ma è dentro di noi. La nostra è una storia di miseria e miserabile. La vergognosa vicenda dei Carusi; le donne (ed anche i bambini e le bambine) abusate, in cambio di un lavoro, da squallidi signorotti il cui nome altisonante echeggia ancora oggi tra le famiglie notabili nissene; le vedove, gli orfani, il caporalato, gli uomini ai crocicchi in attesa di una giornata di lavoro, le quindici bocche da sfamare, l’istruzione accessibile solo alle solite famiglie illustri o alla famelica borghesia. Ti sembra facile rimuovere un simile passato? D’altronde per decenni ci hanno voluto fare credere che Caltanissetta fosse il centro del mondo, una sorta di isola nell’isola della cultura, del benessere economico, dell’industrializzazione. In realtà l’accesso a quel benessere e a quelle ricchezze era affare di pochi. Il popolo era analfabeta, sconosceva l’Italiano; l’unico svago riservato agli uomini erano le putie di vino, fino agli anni Ottanta ne esistevano ancora. Le famiglie, con quindici e più figli, vivevano in umidi catoi e piccoli dammusi. Mangiare la carne era un lusso riservato per le feste comandate. Quella era “la povira genti” di cui scriveva il poeta Ignazio Buttitta ed anche Bernardino Giuliana. La rivolta contro quell’inferno è cominciata negli anni Cinquanta. Sai quando? Quando quella stessa “povira genti” ha capito che il riscatto passava attraverso la scolarizzazione, l’istruzione. Mio padre, ultimo di cinque figli, è stato il solo a potere studiare. Incoraggiato e seguito da un prete di San Cataldo, padre Pellegrino. Ecco, bisognerebbe aprire un capitolo a parte per questi grandi preti. Ha conseguito il diploma di Perito Agrario; lo chiamavano con rispetto ingegnere perché aveva diretto le campagne di bonifica e disinfestazione del territorio ed anche alcuni cantieri scuola. Mio padre, ed anche mio nonno materno, che era un fabbro, per i loro figli hanno anteposto al lavoro lo studio. Nella mia famiglia su tre figli, due abbiamo conseguito la laurea ed uno è un esperto programmatore informatico. Mio nonno materno, classe 1917, su quattro figli due sono laureati e mia madre ha conseguito il titolo di diploma magistrale. Attraverso l’istruzione è passato il riscatto di questo territorio. ’A cultura asciuca l’ummitu dà gnuranza! Declamava a grande voce il poeta Bernardino Giuliana. In definitiva non credo che Caltanissetta abbia rimosso il suo passato minerario. Semmai il mondo che certuni ci hanno descritto, oggi ci appare come il paese dei balocchi. La più grande menzogna made in Caltanissetta. Ecco perché quei pantaloni ritrovati all’interno della miniera con i quali Pinuccio-Rapè chiude il film, assumono
un grande potere evocativo: la nostra storia non passa attraverso i grandi monumenti ma è tutta racchiusa in un paio di calzoni vecchi e polverosi appartenuti al padre del protagonista, uno zolfataio. Quel pantalone appartiene ai nostri nonni; appartiene al papà di quel signore in sala rimasto orfano in tenera età nell’ultima grande tragedia mineraria del 1958; appartengono a mio nonno, a mio padre, a me, ai miei figli… ai nostri figli.
Intravedi strategie o iniziative utili a promuoverlo e valorizzarlo?
Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta si è tentato un recupero del patrimonio minerario. Ricordo che l’ARCI di Caltanissetta ha prodotto un interessante film documentario. L’Amministrazione Comunale dell’epoca, se non sbaglio a quel tempo governata da Salvatore Messana con Assessore alla Cultura Fiorella Falci, hanno pure rilevato la miniera di Gessolungo, eseguendo anche importanti opere di bonifica. Anche Giancarlo Mogavero ha girato un documentario sulle miniere. Dagli anni Settanta fino agli anni Novanta, per nostra fortuna, abbiamo avuto a San Cataldo il poeta Bernardino Giuliana, a Serradifalco il poeta Angelo Rizzo e molti altri ancora, che hanno dedicato la loro opera per preservare, tramandare, denunciare il mondo povero e disgraziato delle miniere. Tantomeno dobbiamo sottovalutare o dimenticare l’opera metodica, scientifica e amorevole di Mario Zurli e Michele Curcuruto. Zurli, a sua iniziativa e a sue spese, ha realizzato il Cimitero dei Carusi ripreso nelle ultime scene de ’U Chiantu. Da venti anni circa a questa parte, praticamente il nulla. All’orizzonte nessuna iniziativa utile al recupero “onesto” della
memoria storica. Dico da parte delle Pubbliche Amministrazioni, dei Comuni nisseni in particolare. Di alcune niziative di carattere teatrale preferirei non parlare né tantomeno di un recente film realizzato per la Rai. Di contro vi sono dei privati, dei folli visionari che, investendo soldi loro, hanno creato strutture ricettive come quella dell’Agriturismo Terra delle Antiche zolfare, una delle location del film di Rapè. A loro andrebbe conferita almeno una Medaglia al Valor Civile! Lo stesso docufilm ’U Chiantu, che si ispira ricordiamolo alla piece teatrale Pinuccio, di Aldo Rapè, rappresenta una iniziativa utile per promuovere e valorizzare il patrimonio minerario. Ma a che valgono tutti questi sforzi se alla base non vi è una vera e propria strategia? Se non vi sono capitoli di spesa dedicati? Se non vi è una chiara, precisa volontà e capacità politica?
Ci parleresti della Compagnia Officina Teatro? In che modo l’arte può favorire “l’empatia etnica tra i popoli” (sono parole tue) e quindi l’inclusione sociale, soprattutto in un territorio come quello sancataldese?
Parlare di OfficinaTeatro oggi richiederebbe almeno un libro suddiviso in due tomi! Il viaggio inizia nel 2012 con una scuola di teatro e un allestimento, Hotello full immersion, ed assume i suoi contorni nel 2015 quando decisi di recarmi in visita ad un Centro di prima accoglienza, a San Cataldo. Stavo attraversando una mia personale condizione psicologica molto delicata e cercavo una via d’uscita. Incontrai poco meno di un centinaio di giovani immigrati, ci confrontammo. Con alcuni di loro ci siamo piaciuti e ci siamo presi; abbiamo dato vita ad uno
spettacolo: My name is… 877! Poi è venuto Moon Light ed ancora Metempsicosis nunc et now, ecc. Eravamo italiani, pakistani, maliani, afgani. Cattolici, mussulmani, diffidenti e miscredenti. Insomma non ci siamo fatti mancare nulla.
Alcuni di questi ragazzi ancora fanno Compagnia con noi, tra questi Imtiaz Ali Cheema, che ha già avviato le pratiche per portare in Italia moglie e figli. Con il nostro lavoro, abbiamo preso in affitto un intero palazzo di fine Ottocento in C.so Vittorio Emanuele 10/12 a San Cataldo, una volta sede della Condotta Medica. Lo abbiamo restaurato con soldi nostri e con il nostro sudore; ne abbiamo fatto il Teatro d’essai La Condotta. È il primo teatro multietnico in Europa e forse al mondo! Nel senso che è un teatro costruito materialmente da artisti italiani ed artisti immigrati provenienti dai Centri di prima accoglienza. Interamente autofinanziato ed autogestito. Un vero e proprio miracolo in nome dell’Arte ad opera di uomini considerati gli ultimi della gerarchia sociale. In tre anni il teatro La Condotta, grazie anche al circuito Latitudini, accoglie le migliori compagnie da tutta Italia e la migliore drammaturgia contemporanea siciliana: Tino Caspanello e Turi Zinna sono ormai di casa. Questa stagione ha fatto registrare il tutto esaurito, molti spettacoli sono stati replicati. Numeri ragguardevoli. Figurati che anche Fabrizio Ferracane ha voluto essere in cartellone. Le cose sono andate così (lo racconto perché mi fa particolarmente piacere, mi inorgoglisce): a settembre dello scorso anno mi trovavo sul set de Il Traditore, film di Marco Bellocchio che uscirà prossimamente. Io interpreto il boss Antonino Rotolo e giravo le mie scene con Ferracane, che faceva Pippo Calò. I momenti di pausa li dedicavo per l’allestimento della nuova Stagione. Un giorno Fabrizio mi chiese: “Ma tu hai un teatro?” “Sì…” e raccontai di come nacque la cosa, della Compagnia OfficinaTeatro e del nostro progetto. Fu così che mi disse: “Ma perché non mi inviti?”. La prima risposta che mi venne in mente fu “Ma il nostro è un piccolo teatro e non facciamo grandi incassi…”. “Ma a te che te ne frega. Tu invitaci e noi veniamo. Veniamo io e Rino [Marino]”. E fu così che la cosa si fece e a San Cataldo. Nel nostro minuscolo teatro, abbiamo ospitato il grande teatro di Rino Marino e il candidato al David di Donatello come migliore attore, Fabrizio Ferracane che proprio in quei giorni era nel piccolo schermo, su Rai Uno, tra i protagonisti della fiction La Compagnia del Cigno.
Nonostante le difficoltà e la trascuratezza da parte dell’Ente Pubblico, credo che dalle nostre parti si stiano scrivendo pagine importanti nella storia culturale, artistica e sociale della nostra provincia e della nostra Italia. E a scriverle sono gli artisti provenienti da diversi angoli del mondo, sono gli ultimi, gli immigrati e i siciliani.
Nel 2015 OfficinaTeatro ha vinto il Grand Prix del Teatro, sez. videoteatro, con lo spettacolo Hotello Full Immersion. Siamo stati premiati a Roma, nel Salone Margherita. Il presidente della giuria era Tullio Solenghi. Dico solo questo: l’anno successivo il Premio non è stato assegnato perché non vi erano proposte all’altezza del premio stesso. Nel 2018 abbiamo incassato il Premio Sorriso Diverso indetto da Rai Cinema Channel nel Concorso Tulipani di Seta Nera. È stato vinto con il film di Virginia Barrett A me resta la speranza, dove i protagonisti siamo io e la splendida Marcia Sedoc. Il cast è costituito da Bandjougou Sakonè, Imtiaz Ali Cheema, Atika El Jabar. Tutti attori di OfficinaTeatro. Lo scorso anno abbiamo chiuso il SABIR FEST a Messina. Sempre l’estate scorsa una troupe capeggiata da Michele Pennetta ha girato, anche con attori di OfficinaTeatro tra cui io e Stanley Eagle (che è il protagonista), un film verità per la Televisione Svizzera Italiana. Nei nostri spettacoli si parla l’italiano, l’inglese, il salakonè, l’urdu, il francese… Chi ha visto i nostri teatri sa bene di cosa sto parlando. Lo sporco negro non appare poi così tanto sporco se lo vedi su di un palco. La lingua straniera, che magari prima ti intimoriva, scopri che ha una sua musicalità, un suo fascino. Perfino il colore della pelle non rappresenta una diversità ma un valore aggiunto. Potrei parlare fino all’infinito… preferisco fare un esempio pratico: due anni fa, d’estate a Caltanissetta, davanti il Palazzo di Città. Tony Maganuco organizza una serie di spettacoli. Mi chiama. Propongo Moon Light, uno spettacolo da strada con tanto di scenografia realizzata dal pittore afgano Arian Sadiq. L’ambientazione è in un circo, Bandjougou è il protagonista. Avete mai visto dalle nostre parti un clown giocoliere di razza nera? Lo spettacolo si conclude con una parata di bandiere dei paesi di provenienza degli artisti: c’è quella italiana, quella pakistana, quella del Mali, la Somalia, la Nigeria, quella dell’Europa e soprattutto quella della Pace. Sai com’è finita? Alla fine dello spettacolo, i commercianti delle zone limitrofe hanno invaso la scena, imbracciato le bandiere e si sono messi in posa con gli artisti… Foto, selfie, palloncini e cartoline per tutti. L’artista più gettonato? Il clown Bandjougou! Altro che uomo nero!… Lo spettacolo si è concluso con una grande festa improvvisata: gelati, pizze e bibite offerte dai bar. Dobbiamo ancora parlare di come l’arte e lo spettacolo in particolare possa favorire l’empatia? Chiaramente alla base di tutto ciò c’è la competenza, l’intelligenza, la disponibilità di chi ha concepito un progetto e di chi quotidianamente continua a lavoraci: Marco Tullio Mangione, Imtiaz Ali Cheema, Stanley Eagle, Ahmed Isaac, Francesca Tona ed anche l’attrice Marcia Sedoc, che ormai fa parte stabile di OfficinaTeatro pur vivendo a Roma.
Mi chiedi dell’inclusione sociale, soprattutto in un territorio come quello sancataldese? Ebbene non è stato facile. Considera che nel Teatro d’essai La Condotta io non ho mai visto né il sindaco Giampiero Modaffari, dico fisicamente, né gli assessori né la quasi totalità dei consiglieri comunali. Non ho visto i deputati Cancelleri e nemmeno i sancataldesi onorevoli Pignatone e Pagano. Insomma: snobbati dalla politica. Non li ho visti neanche quando ci hanno scassinato il teatro e neanche quando sono stato minacciato pubblicamente e sui social da balordi riconducibili a certa area politica… Non ho ricevuto da parte dei politici la benché minima solidarietà. La loro totale assenza è stata bilanciata da un’assidua presenza di spettatori nel nostro teatro, che cresce di volta in volta e questo la dice lunga a proposito di inclusione, dato che la peculiarità multietnica del nostro teatro è evidente. Finisco di rispondere alla tua domanda citando una battuta estrapolata dal nostro Moon Light: “La Luna da sempre illumina il percorso dell’Umanità e gli Artisti sono la Luce della Luna”.
Hai una lunga e prestigiosa esperienza nel campo teatrale, iniziata quando, a Caltanissetta, il Teatro Margherita non era fruibile dal pubblico e dai cittadini. Hai assistito al rinascere e allo sviluppo delle attività teatrali dagli anni Novanta fino ad oggi. Hai in mente esperienza brillanti, che si sono distinte per la loro importanza e qualità? Cosa si è fatto e cosa si può ancora fare per il teatro, a Caltanissetta?
A Caltanissetta e in buona parte della provincia il teatro è sempre esistito. A San Cataldo, dove io ho mosso i primi passi, fino a metà degli anni Novanta si faceva teatro in quasi tutte le parrocchie. La Compagnia Don Bosco, dell’Oratorio Salesiani di San Cataldo e capeggiata da Eugenio Cammarata, di cui ho fatto parte per tanti anni, era in competizione con i Quindici di Caltanissetta. Quando ancora facevo teatro nella Parrocchia Cristo Re, a San Cataldo, venivano a vederci il commediografo Nino Di Maria, il dottor Ferro e il signor Chiarello; tutti amanti e promotori del teatro nisseno. C’era anche un altro spazio non proprio teatrale, diciamo una saletta destinata a performance di vario genere. È lì che si mi sono appassionato di un certo mondo culturale posto ai margini, naif. Si trovava a Caltanissetta, al primo piano di un palazzo storico in cui si accede da Corso Umberto. Era la sede di un’Associazione di cui varrebbe la pena scrivere un libro intero. Si chiamava Associazione Marcel Duchamp, il suo storico presidente era il critico ed artista Franco Spena. Lì ho tenuto, davanti un pubblico di trenta spettatori (tanto poteva ospitare quella saletta), i miei primi recital di poesie di J. Prevert, di poeti nisseni tra cui ricordo Mauro Milan, Angelo Rizzo, il compianto Bernardino Giuliana. In quello spazio minuscolo ho conosciuto e visto all’opera Michele Bongiorno, ormai avanti negli anni. Bongiorno era un ballerino, un intrattenitore, un attore, un cabarettista, un fantasista eccezionale. Raccontava di avere lavorato in compagnia con Wanda Osiris. Quelli furono anni di grande fermento culturale per Caltanissetta. Proprio in quel tempo nasceva professionalmente il maestro insuperato, il padre del teatro professionista nisseno: Peppe Nasca. Nessuno come lui si è distinto per ciò che ha saputo fare di importante: ha inculcato alla sua compagnia, il Teatro Stabile Nisseno, il concetto di organizzazione, marketing dello spettacolo, professionismo. Nasca è stato un personaggio stratosferico. Mi hai chiesto quali esperienze brillanti mi vengono in mente? Tantissime ma tutte mi riconducono a Peppe Nasca. Io l’ho conosciuto personalmente, ho partecipato ad una sua scuola di teatro (frequentavo già il Teates) e ad un suo spettacolo, “Zolfo Amaro”, dove ho avuto la possibilità, io ragazzotto, di recitare al fianco di Nunzia Greco, Roberto Tomaello, Bruno Torrisi ecc. Tutti noi dobbiamo più di qualcosa a Peppe Nasca. Fu sua l’intuizione che al teatro servivano innanzitutto le maestranze. Idea messa in pratica, senza esitazione alcuna, dal Sindaco Michele Abbate con una scuola di maestranze organizzata proprio quando riaprì il Margherita. A Peppe andrebbe dedicato il foyer del Teatro Margherita se non addirittura la sala; mi piacerebbe e piacerebbe a tanti nisseni, ne sono sicuro.
Cosa si può ancora fare per il teatro nisseno? Per esempio cominciare a pensare ai nostri teatri comunali sparsi per la provincia (Margherita, Marconi, De Curtis, ecc.) non solo come ad un enorme contenitore per la rappresentazione di spettacoli acquistati dalle varie distribuzioni ma come centro di produzione e a sua volta di distribuzione. Il territorio offre maestranze, attori, performer, licei musicali, emittenti radiofoniche e televisive, licei artistici, scenografi; praticamente tutto. Una cosa simile era stata proposta da OfficinaTeatro cinque anni fa per il Teatro Marconi di San Cataldo. Avevamo assicurato un finanziamento di 100.000 euro da parte di Banca Etica e l’interessamento da parte di un noto avvocato inglese disposto a mediare con alcuni facoltosi imprenditori, suoi clienti, per dirottare a San Cataldo alcune cospicue donazioni. Il produttore cinematografico Angelo Iacono aveva manifestato la volontà di donare il proprio archivio purché se ne garantisse la fruibilità tra i giovani studenti e le Università. Si trattava di faldoni contenenti i film più importanti dagli anni Sessanta agli anni Ottanta: 8/2 di Fellini, Profondo Rosso e quasi tutti i film di Dario Argento di cui lui ne è stato il direttore di produzione; manifesti, locandine, fogli paga, piani di lavorazione, sceneggiature… Figurati che il Direttore di Banca Etica, oggi senatore, Steni Di Piazza e l’avvocato inglese sono venuti a San Cataldo per tracciare le linee dell’accordo per la realizzazione del progetto. Allora il Sindaco era Raimondi. Si dimise a meno di un mese
dall’incontro, dalle strette di mano e dalle foto di rito. Poi fu eletto Modaffari. Peggio che andar di notte! Tutto si è dissolto nei meandri del Palazzo. Il Marconi di fatto è chiuso e destinato ad un inesorabile declino; sporco, danneggiato, senza arredamenti, senza riscaldamento. Umiliato!
In definitiva, i professionisti costruiscono e la politica distrugge. Funziona così dalle nostre parti. Il Sindaco Modaffari, con la sua giunta, ha delle grandi responsabilità in merito anche se lui e i suoi assessori non lo ammetteranno mai, probabilmente perché non se ne rendono conto. Un vero fallimento se consideriamo che tra i punti salienti del suo programma vi era proprio la gestione del Teatro Marconi. Se riflettiamo bene, tutti i nostri amministratori hanno avuto ed hanno delle responsabilità nei confronti del teatro e, in generale, della cultura. Le ricadute negative sono sotto gli occhi di tutti. Cosa si può ancora fare per il teatro a Caltanissetta? Lasciare gli uomini di teatro decidere sul teatro!
Dal punto di vista teatrale, il centro Sicilia può ambire ad avere un ruolo di primo piano in campo nazionale o siamo ancora una “periferia”, come ci definì Moni Ovadia qualche anno fa, all’inizio della sua direzione artistica del Margherita?
Di Moni Ovadia e della sua infelice definizione avrei preferito che fosse veramente un capitolo chiuso. Ovadia non sapeva nulla del nostro territorio ed è andato via continuando a non saperne nulla. Alle sue spalle si muoveva un progetto economico, prima che culturale. In questo non vi è nulla di male, lo spettacolo è anche marketing. Il male sta, a mio avviso, nella professione di intenti perché dai proclami intellettuali a come sono andati i fatti c’è di mezzo il grande mare dell’obiettività e della coerenza. Ovadia in effetti ha ignorato le potenzialità e la grande forza culturale ed artistica espressa dal territorio. Per esempio, dopo i bei discorsi ci aspettavamo quantomeno una visitina nel nostro Teatro La Condotta e invece… niente! Eppure lo sbigliettamento del nostro teatro spesso superava quello del teatro Margherita da lui diretto e finanziato dall’Ente Pubblico e dagli sponsor privati a fior di centinaia di migliaia di Euro. Per non dire che la storia della nostra Compagnia avrebbe dovuto interessarlo particolarmente perché effettivamente unica e straordinaria. Invece è andato via lasciandoci cosa? Niente. Mi chiedo e ti chiedo cosa hanno fatto di concreto Ovadia e il suo entourage per traghettarci da un “mondo periferico” alla centralità delle scene nazionali? Quali innovazioni ha apportato nella consueta “amministrazione” del teatro Margherita? Ed ancora, a distanza di pochi mesi dal suo addio, chi si ricorda di Moni Ovadia? Rispondo alla tua domanda: Possiamo ambire ad avere un ruolo di primo piano in campo nazionale?
Caltanissetta, intesa come provincia, è già nel panorama culturale e teatrale nazionale e internazionale. Ciò che manca è la messa a punto di una grande organizzazione coordinata da un esperto, che abbia la conoscenza reale del territorio e dei suoi artisti presenti nel territorio o sparsi per il mondo; che dimostri di avere memoria storica per focalizzare e fare convergere tutte queste energie per poi rilasciarle su tutto il territorio regionale e nazionale, sotto un unico brand che accorpa tutti. Il Consorzio tra i vari teatri dovrebbe essere il cuore pulsante. Penso anche ad una grande Compagnia. Potremmo fare scintille!
Quando parlo di una forte presenza artistica performativa nissena nel panorama nazionale e internazionale penso subito a Rosario Petix, che oltre al teatro lo abbiamo visto in fiction di successo; Vincenzo Volo, spalla storica di Litterio ma soprattutto grande uomo di teatro; Aldo Rapè; Antonello Capodici, regista tra i più apprezzati in Sicilia; la danzatrice Simona Miraglia; Luca Vullo; il compositore Giuseppe Vasapolli, che vive tra San Cataldo e Los Angeles. Penso al miracolo di Miele, che ha scalato la vetta più alta di San Remo e alla incredibile avventura artistica della giovanissima Gaia Violo, sceneggiatrice ormai in pianta stabile a Los Angeles. Per capirci ha lavorato a C.S.I e a Master of Sex ed è sceneggiatrice per Disney USA!
Poi vi sono i circuiti più popolari, cinema e televisione. Anche lì è ormai consuetudine vedere volti nisseni: Attilio Ferrara fa parte della scuderia del regista Pasquale Scimeca; lo stesso Francesco Capizzi, attore amatoriale, si è prestato ad esperienze televisive e poi ci sono anch’io con le cose che ho fatto. Praticamente noi nisseni siamo presenti in tutte le più importanti produzioni nazionali: da Montalbano a Il Cacciatore, da I Cesaroni a Distretto di Polizia, da Ris Roma alla serie La mafia uccide solo d’estate. Non ci rendiamo conto ma siamo già dentro al panorama nazionale, in prima persona, senza intermediazioni o ricette preconfezionate da parte di maestri d’arte venuti dal nord. E siamo tutti molto bravi ed apprezzati.
Non dimentichiamo che da qualche anno vi è anche un certo fervore nel campo cinematografico, favorito anche dall’avvento del digitale. A parte il grande lavoro portato avanti da Luca Vullo, interessanti le produzioni di Salvo Bonaffini e di Toni Gangitano. Hanno messo a punto un sistema di fundraising e produzione ineccepibile e funzionale. Ma ciò che più mi entusiasma è la nuova generazione. La preparazione tecnica e la sensibilità che hanno i giovanissimi. A capodanno il teatro La Condotta ha prodotto un gruppo (viola, violino, violoncello, flauto e piano), gli Overstaff, che è un qualcosa di stratosferico, meraviglioso! Il capogruppo? Un diciassettenne; un vero genio, una grande promessa! Vincenzo Farinella. Poi vi è una vera rivelazione del teatro, anche se la sua strada è lunga e tutta in salita: il nigeriano Stanley Eagle. Questi sono soltanto una parte dei nomi, ma l’elenco è lunghissimo.
Cosa manca? Una politica culturale più adeguata che abbia il coraggio finalmente di investire concretamente sul territorio, non solo a parole ed in iniziative (scadenti) a costo zero o in fantomatiche “chiamate alle arti” (gratis). Una politica culturale che riesca finalmente ad andare oltre le costose operazioni in favore di artisti e
Compagnie provenienti da fuori, penalizzando economicamente solo le realtà professionistiche che muovono proprio da Caltanissetta, le uniche destinate a lasciare ricchezza e progresso nel territorio. Come vedi l’anello si chiude sempre con la questione della inadeguatezza politica e della mancanza di coraggio.