L’emergenza sanitaria e il dopo. Ne parliamo con Antonio Riolo
La pandemia ha causato, in Italia, oltre 10.000 morti, e la portata tragica di questo evento lo rende uno spartiacque tra un prima e un dopo. In molti si chiedono, in questi giorni di fermo tra le mura domestiche, se riusciremo a trasformare l’emergenza coronavirus in opportunità, per rivedere modelli e comportamenti messi in atto fino ad oggi. Per fare il punto sulla situazione abbiamo intervistato Antonio Riolo.
Partiamo dal rapporto tra le generazioni. Prima che in Italia si diffondesse il coronavirus, i giovani, attraverso Greta e i Friday for Future, avevano chiesto conto alle generazioni precedenti dei loro comportamenti altamente inquinanti invocando un cambio di rotta. Il coronavirus riporta invece le generazioni precedenti e gli anziani al centro dell’attenzione. Questa volta sono infatti i più anziani a chiedere, giustamente, conto ai giovani dei loro comportamenti sconsiderati. Il coronavirus ha ridimensionato in qualche modo e ricacciato indietro una generazione che avrebbe voluto essere la protagonista di un cambiamento?
«Su questa suggestiva e impegnativa chiave di lettura, vorrei ricordare che, quando esplose, nel 2008, la cosiddetta crisi finanziaria globale, partecipai a un seminario ristretto della CGIL nazionale. Nel mio intervento rimarcai le suggestioni e le riflessioni della rilettura del romanzo I vecchi e i giovani e parlai non tanto di rischi di conflitto ma di antinomie, come classificazioni sociologiche ed esistenziali. Riflettendo sulla pandemia mi rafforzo nella mia opinione. Nelle fasi di crisi violente come queste, si accelerano determinati processi ma la vera antinomia rimane quella tra l’uomo e la concezione che l’uomo ha di sé stesso. Il livello di diseguaglianza che abbiamo raggiunto in questi anni è altissimo e la questione che poni tu è stata anche figlia di un errore che abbiamo spesso commesso, nel privilegiare il lavoro all’ambiente. L’errore più grande è stato quello di aver contribuito a formare il livello delle diseguaglianze nel mondo».
Se dovessi leggere questi giorni di pandemia dal punto di vista delle categorie di lavoro più a rischio, quali sono i maggiori problemi che emergono e il cambio di rotta che ci vorrebbe? Vogliamo parlare anche del lavoro nero, visto che l’emergenza sanitaria ha portato l’argomento lavoro sommerso ad emergere?
«Nella società che ha privilegiato i “lavoretti” e cioè il sistema capitalistico maturo degli ultimi anni, la sfera precaria sommata a quella sommersa forma più di quella protetta e garantita. Ormai di garantito non rimane più nessuno e si pone la necessità imperiosa di un intervento dello Stato. La carenza di mascherine che dovrebbero tutelare il personale sanitario, ad esempio, è un dato strutturale, non un’emergenza».
Si parla della necessità di un ritorno al welfare, negli anni scorsi quasi archiviato come categoria novecentesca. Qual è il modello di Stato che dovremmo seguire, in Italia, dopo l’emergenza sanitaria e sociale di questo periodo?
«No, lo stato sociale non è stato archiviato ma demonizzato. Negli ultimi decenni è stato messo in discussione perché valeva la deregulation, ma i cardini fondamentali di una società – informazione, sanità, istruzione – non possono essere abbandonati alle regole del libero mercato. Oggi tutti si accaniscono nella critica alla demolizione della sanità pubblica, in Italia, come se non avessero preso parte a questa demolizione. Le nuove tecnologie costituiscono un divario tra chi ne può disporre e chi invece no e siamo l’ultimo Paese in Europa che investe nella ricerca scientifica. Questa pandemia pone anche un altro importantissimo problema. Esiste il rischio che per tutelare la salute si passi ad una sorveglianza globale e si arrivi al punto che chi detiene e sorveglia i bioritmi di ognuno di noi può venderci un prodotto ma anche un politico».
La pandemia sta mettendo alla prova l’UE. Secondo te, come finirà? Vinceranno i sovranismi e la difesa dei confini nazionali?
«L’Europa (ride). L’Europa somiglia a quelle coppie che hanno una storia infinita, stanno insieme, poi si lasciano, poi si rimettono di nuovo insieme. Temo che, questa volta, la corda si sia definitivamente rotta. Fra le ipocrisie e le scelte nette, ho sempre preferito le scelte nette. Che lo sbocco di questa situazione sia il sovranismo non è obbligatorio ma dipende da noi. Il dissolversi della UE potrebbe anche portare a un globalismo comunitario e solidale. Dipende da noi».
E veniamo al Mezzogiorno e alla Sicilia. Quando e in che misura dobbiamo temere la bomba dell’emergenza sociale?
«Il divario tra Nord e Sud non esplode, si acuisce, perché la questione sociale nel Meridione ha decenni alle spalle. I rischi che finisca malissimo sono tanti ma tante sono anche le opportunità di cambiamento. Non è detto che da questa crisi ne usciremo peggiori. Che finisca meglio o peggio dipende da ognuno di noi. A tal proposito mi piace ricordare uno degli slogan della contestazione popolare cilena dell’autunno scorso: “non sto accettando le cose che non posso cambiare, sto cambiando le cose che non posso accettare».