Dal pane ai dolci: l’intervento di Marina Castiglione alla Semaine de la Cuisine Italienne dans le Monde
Dal 23 al 29 novembre si è svolta, a Parigi, la V Semaine de la Cuisine Italienne dans le Monde, con uno spazio di tutto rispetto dedicato alla farina e al pane italiano, vere e proprie celebrità che rappresentano al meglio il nostro Paese. Pubblichiamo quindi Dal pane ai dolci, intervento della docente di Linguistica italiana all’Università di Palermo, Marina Castiglione, nell’ambito dell’evento parigino.
«Nella lingua e nella cultura greca, uomo era sinonimo di mangiatore di pane. Il pane, infatti, era oggetto di coagulo di forme e pratiche culturali, ponendosi tra quei manufatti che hanno il potere di determinare status e gerarchie, di conferire identità e memoria, di dare ordine e significato al mondo. Esso si colloca in una fase di plasmazione della materia prima successiva a quello dei semplici chicchi (che per noi hanno ancora un uso rituale nella cuccìa, minestra di grano e ceci usata per Santa Lucia) e a quello delle farine (con tutta la ricca varietà di polente e farinate che contraddistinguono la Sicilia), pertanto appare quando le comunità si stabilizzano, costruiscono fuochi/focolari/forni e hanno il tempo per l’impasto. Non si tratta, dunque, di un alimento nato dall’oggi al domani, ma dell’alimento che più di ogni altro ha contrassegnato i passi verso la civiltà. Attorno ad esso si costruisce la comunità del pane, una comunità che lo erge anche a simbolo di molti detti sapienziali: esso è associato, infatti, all’esperienza (Pani di tanti furni), alla fortuna (Nna la casa c’un c’è pani/ cc’è lu trìvulu [tribolo] abbattutu), all’autosufficienza consolatoria (Pani schittu cala rittu), alla familiarità (Frati e fratuzzi /fannu panuzzi), alla difesa (A cu ti leva pani / lèvaci vita), alla disparità sociale (Cu diuna pi devozioni / e cu pi unn’aviri pani), all’essenzialità (Pani e vinu / un stanca caminu), alla inconciliabilità (Un putiri fari pani ccu unu), alla Provvidenza (Pani e sacramentu / ci nn’è n’ogni cummentu; «la providènzia è u pani»).
In Sicilia, tradizionale granaio sin dai tempi dei greci, i nomi delle forme di pane sono moltissimi, alcune volte ormai presenti solo sui dizionari, altre volte limitati a singoli centri siciliani, spesso con ampia diffusione regionale. A Giarratana è registrata la forma aliḍḍa ‘piccolo pane di forma allungata’; ad Acate e Vittoria si trova il ccuòcculu ‘pane di forma rotonda con un piccolo solco nella parte superiore’; nel palermitano è diffuso il çiumitortu o cimutoittu ‘pane di forma allungata e sagomata a zigzag’; a Modica, la scuzzària ‘pane a forma di tartaruga’; ad Àvola il rrugnuni ‘particolare forma di pane a forma di rene’; ecc. Più diffuse e pansiciliane le forme chichireḍḍa, cosaminuta, cusuzzi, cuḍḍura, filuni, jaḍḍuzzu, mafalda, mbròglia, menzaluna, nciminata, pisci, pistola/pistolu/pistuluni, scanatu, squaratu/squadatu, ṭṛizza, tunna, ecc.
Il passaggio dal pane al dolce si lega strettamente alla ritualità, in virtù del fatto che in una società tradizionale l’abbondanza è del dio. I “pani speciali”, dunque, nascono per il momento della festa, per ingraziarsi il divino attraverso l’offerta di un cibo destinato all’eccezionalità del momento e del destinatario. Anticamente, la presenza dello zucchero nelle case dei siciliani era assai rara e, per dolcificare, era necessario sopperire con altri zuccheri, soprattutto il miele, il vino cotto e quelli ricavati dalla frutta secca. Riempire un pane con i fichi secchi è quindi una delle forme più immediate di ingolosire una preparazione quotidiana: di questo passaggio dal pane al dolce vi è testimonianza ancora oggi in alcuni centri della Sicilia interna dove per cucciḍḍatu si intende, per l’appunto, un pane ripieno di fichi secchi macinati.
Farcire con ingredienti dolci una forma di pane, pertanto, è il passaggio necessario a ché nel continuum pane → dolce si verifichi uno spostamento della condizione dell’alimento. Gran parte di questi passaggi dal salato al dolce fanno la loro prima apparizione all’interno delle mura dei conventi, spazi del privilegio sociale e sono associati alle principali feste liturgiche: il Natale, la Pasqua, la commemorazione dei defunti. La Pasqua, in particolare, vede realizzarsi un momento temporalmente e religiosamente abbinato alla rinascita, per cui pane e uova diventano i protagonisti della mensa attraverso dolci che ancora oggi riproducono oggetti (canestri, campanelle, ecc.) o hanno forme fitomorfe e antropomorfe. Di questi pani pasquali esiste un’ampia gamma anche in merito alle decorazioni che possono prevedere uova colorate (anche più di una) e pane glassato. Moltissimi i geosinonimi, il più dei quali a base iconimica: campanaru, cannileri, cicìu, palummeḍḍa, panareḍḍu, pupaccena, ecc.
Anche la cuddura nasce come pane di forma circolare, con un buco al centro: da pane quotidiano esso diventa pane rituale soprattutto nelle tavolate di san Giuseppe e da qui al passaggio al dolce il passo è breve. Talora il dolce mantiene la forma circolare (ad esempio nelle cudduredde di Delia), altre volte resta soltanto il nome, ma il designatum è qualcosa di molto diverso: si va dal pezzo di pasta fritta e zuccherata sino alla ciambella, per cui paese che vai, cudduredda che trovi…
Quando oggi pensiamo al “dolce” forse queste forme più tradizionali sono estranee al nostro immaginario: ci sovviene qualcosa ricco di burro, panna, cioccolato. Eppure, per giungere alla variegata gamma di offerta dei banconi dei pasticceri, siamo dovuti passare obbligatoriamente attraverso i forni e i fornai».
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Complimenti molto interessante. La cucina siciliana è molto apprezzata in Francia.