La riflessione dell’antropologa Melina Pignato sul “Padrino dell’antimafia”
Esistono tanti modi di leggere, tanti quante sono le persone a farlo. Si può leggere distrattamente o badando molto agli aneddoti e alle vicende raccontate, o ancora traendo lezioni di principio dalla trama degli episodi narrati in un testo. Esistono quindi tanti modi di leggere “Il padrino dell’antimafia”. Oggi ospitiamo la riflessione dell’antropologa Melina Pignato, che offre una chiave di lettura profonda del libro di Attilio Bolzoni, spesso letto solo badando alla serie di personaggi e fatti locali che compongono il sistema Montante, senza cioè sollevare i propri occhi dal microcosmo di Caltanissetta.
«Ho concluso, ormai da un po’, la lettura del libro di Attilio Bolzoni “Il padrino dell’antimafia” e adesso butto giù qualche riflessione. L’ho letto rapidamente, come si fa con i gialli, attirata dalla sinistra fascinazione esercitata da un racconto che è insieme storia del sistema Montante e storia dell’addentrarsi dell’autore (e del lettore con lui) nella sua decifrazione. Altre brutture verranno alla luce, lo penso e lo spero. Ma intanto c’è qualcosa che è già lì, in ogni pagina del libro, e che (forse perchè per mestiere sono interessata alla rappresentazione dei fatti almeno quanto ai fatti stessi) mi ha particolarmente colpito: la tessitura (parallela a quella della sottotrama di complicità, connivenze e silenzi) di una narrazione che del sistema criminale costituiva la trama visibile e apologetica. Narrazione in grande stile, ‘sistema narrativo’ mi verrebbe da dire, dato che comprendeva discorsi, messinscene, celebrazioni, eroi locali e perfino entità mitiche, come l’ormai famosa bicicletta. Questa narrazione si è rapidamente convertita in una pesante cappa ideologica, in un ‘pensiero unico’ così persuasivo e pervasivo che chiunque nutrisse sospetti e osasse sollevare dubbi e obiezioni era etichettato automaticamente come ‘mafioso’ (grottesca, ma anche emblematica, l’espulsione di Franco La Torre dall’associazione Libera di Don Ciotti…). Il modo in cui le cose vengono narrate, in cui si parla di esse, non è ‘sovrastruttura’, è una componente attiva e fattiva della realtà. Il discorso sulle cose non è semplice ‘commento’ ma, come diceva Foucault, è il luogo in cui la realtà prende forma e da cui si riversa nel mondo. Per questo la rappresentazione antimafiosa di un sistema mafioso e la retorica dell’Antimafia erano componenti fondamentali del sistema Montante: chi detiene il potere sa che esso si conserva meglio generando narrazioni e messinscene, chi manipola flussi di denaro sa che bisogna manipolare anche flussi di idee e di parole. Che la realtà sia anche (qualche antropologo direbbe ‘essenzialmente’) il prodotto del ‘discorso’ che si fa su di essa è però allarmante, perchè non si tratta di un ‘unicum’ costituito dal sistema Montante ma di un meccanismo riproducibile in qualunque contesto, sotto qualsiasi etichetta ideologica, oliato e nutrito (non sempre, ma a volte sì) anche dalla buonafede. Sappiamo infatti, mai come di questi tempi, che gli esseri umani sono disposti a prestare orecchio a forze oscure e incitamenti all’odio ma trascuriamo la loro disponibilità (di segno diverso ma altrettanto pericolosa) a fare proprie narrazioni che, evocando principi elevati e idee nobili, li fanno sentire migliori, superiori alle masse incolte e/o insensibili, schierati dalla parte giusta. Anche i veli di Maya intessuti di buone intenzioni, però, possono mascherare la realtà. Una sana dose di scetticismo, l’esercizio sistematico del dubbio, l’attitudine a interrogarsi e documentarsi (a confrontarsi con tante voci e tanti racconti) rappresentano l’unica difesa contro le trappole narrative».