Lavorare sulla persona per sradicare la volontà di delinquere: intervista a Rita Barbera, ex direttrice delle carceri Pagliarelli e Ucciardone
Esiste immagine più adatta della matassa a rappresentare, quest’anno, il tema delle carceri? Il caso giudiziario di Ilaria Salis a Budapest e dei giovani nisseni in Romania, Filippo Mosca e Luca Cammalleri. La vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito e ancora, i terribili episodi avvenuti al Beccaria. Fino ai casi di suicidio di questi giorni, l’ultimo nel carcere di Sollicciano (Firenze) il pomeriggio del 4 luglio, un ragazzo di vent’anni che si aggiunge alle 47 persone detenute che, dall’inizio dell’anno al 30 giugno, si sono tolte la vita (dato fornito dal Garante nazionale dei detenuti). Storie individuali che pongono, però, una serie di interrogativi sulla detenzione. Abbiamo intervistato Rita Barbera, dal 1984 direttrice in diversi istituti di pena, fra i quali Ucciardone e Pagliarelli. Anche se in pensione, la dottoressa Barbera il mondo del carcere lo conosce bene. Allora, pensando alle catene ai piedi e ai polsi di Ilaria Salis e alle storie drammatiche sopra citate le abbiamo rivolto la prima domanda.
C’è differenza tra l’Ungheria e l’Italia o il carcere è carcere dovunque?
«Certo, il carcere è carcere ovunque ma non tenere conto di alcune differenze non è proprio corretto. L’Italia ha infatti un ordinamento penitenziario come pochi Paesi al mondo, costituito da una serie di leggi molto garantiste e abbastanza illuminate. Il rispetto dei diritti è il pilastro fondamentale dell’ordinamento penitenziario italiano. Non essendo un’esperta di detenzione in altri Paesi, non so se anche altrove vi siano diritti sanciti da leggi specifiche. In Italia, prima la Costituzione e poi la Riforma penitenziaria del 1975 si sono occupate dei detenuti nel rispetto dei diritti fondamentali. Altra cosa è la pratica».
Pensando ad episodi come quelli accaduti al Beccaria, o comunque a problemi come il sovraffollamento, le carceri restano un mondo di soprusi e diritti negati o una strada per la riabilitazione della persona?
«Credo che, in questo momento, il carcere sia un fallimento dal punto di vista della prevenzione e del recupero, mentre la pena dovrebbe essere rieducativa. Credo che, nella pratica, le nostre carceri non siano né rieducative né risocializzanti e che la funzione della pena non sia rispettata. Nel 1980, a seguito della Riforma penitenziaria, c’è stato un tentativo in direzione dell’applicazione delle leggi. Negli anni, invece, il sistema penitenziario italiano non sembra essere riuscito a mettere in atto gli intenti che si proponeva».
Perché?
«Non c’è volontà politica né culturale. Nell’opinione comune carcere è uguale a punizione e quindi tale deve essere. La nostra è una società forcaiola, dove la cultura punitiva fa fatica ad essere sradicata. La funzione rieducativa non è sostenuta da una cultura radicata, visto che nella nostra società essa manca. Non esiste la volontà di rispettare l’uomo che ha sbagliato e che ha provocato un danno alla società.
Sul fronte del rispetto dei diritti umani, il detenuto vive una quotidianità frustrante, mentre la perdita della libertà personale è una condizione grave che, di per sé, basta. Quando a questa condizione si aggiungono altre frustrazioni, allora la vita può diventare insopportabile. Per capire meglio quello che dico, consiglio la visione del film “Detenuto in attesa di giudizio”, diretto da Nanni Loy e interpretato da Alberto Sordi. Nonostante sia un film vecchio di oltre 50 anni, la logica di gestione dei detenuti e l’atmosfera del carcere è sempre la stessa, anche oggi. Se non vi è un cambiamento di approccio, il problema rimane e la recidiva pure. A questo dobbiamo infine aggiungere l’esiguità delle risorse umane ed economiche».
Nel gennaio di quest’anno il ministro Nordio (attirando molte critiche) riferendosi ai casi di suicidio nelle carceri parlò di “malattia ineliminabile”. È proprio così?
«Già solo questa affermazione dice tutto sulla volontà effettiva di affrontare i problemi! Se di malattia dobbiamo parlare questa è la malattia del carcere; si può sicuramente dire che il carcere è malato».
Esiste una differenza di genere a proposito del suicidio e dei problemi che affliggono le persone detenute?
«Mi sto occupando della detenzione femminile e posso dire che i casi di suicidio che si verificano tra la popolazione carceraria femminile sembrerebbero pochi rispetto a quelli maschili. Ma è solo un’apparenza dovuta al fatto che il numero delle donne detenute è minore rispetto a quello degli uomini. In percentuale, i casi di suicidio fra le donne sono numericamente maggiori, per tutta una serie di motivi. La detenzione femminile è più dura: il detenuto uomo viene spesso sostenuto dalle figure femminili della sua famiglia che provvedono alla cura dei figli e che lo sostengono durante la detenzione, le donne sentono invece il peso della loro assenza ed hanno la preoccupazione dei figli. Anche i rapporti affettivi sono vissuti diversamente dalle donne e dagli uomini. Nella mia carriera ho constatato come le donne sentano il bisogno di legarsi affettivamente alle loro compagne di detenzione ed alcune volte instaurano veri e propri legami amorosi non nascondendoli. È una forma di omosessualità temporanea dovuta allo stare in carcere».
Secondo la sua esperienza, cosa andrebbe fatto per alleviare questo stato di cose?
«Credo che occorra fare riferimento al carcere solo per i casi gravi, fare una riforma radicale del codice penale e trattare i reati minori con le misure alternative. La pena dovrebbe essere proporzionata all’offesa che si arreca alla società. A mio avviso, il furto di cose non andrebbe punito con la detenzione. Si deve lavorare sulla testa delle persone per evitare che ripetano il reato già commesso e per estirpare la volontà di delinquere. Per questo serve un lavoro improntato al recupero e una riforma importante che riconsideri tutto in tal senso».
Grazie per questo ottimo contributo, sarebbe molto interessante che da questa prolusione si iniziasse un discorso con approfondimenti altrettanto interessanti e utili. Complimenti ad entrambe, a Marcella Geraci per avere avuto l’idea e a Rita Barbera per averla accolta.