L’emergenza sanitaria, il dopo e il nostro modello di sviluppo. Considerazioni di Pasquale Tornatore
In tanti intravedono una relazione tra il momento che stiamo vivendo e i nostri stili di vita frenetici, inquinanti e all’insegna della produzione e del consumismo esasperati. È un tema difficile da trattare e non spetta a noi farlo o avere una posizione chiara e definitiva, in merito. Oggi pubblichiamo l’intervento dell’ex assessore Pasquale Tornatore, che si occupa ormai da anni di tematiche legate all’ambiente, al cibo e allo sviluppo ecosostenibile. Oggi l’architetto Tornatore è consulente in Comunicazione e marketing della Cooperativa Etnos e questo è il suo pensiero sul dopo coronavirus:
«Mi è stato chiesto un intervento sulla necessità di riorganizzare il nostro territorio, e come riorganizzarsi, dopo il coronavirus. Forse sarebbe stato meglio dedicarsi prima dell’arrivo del coronavirus, tutti, singolarmente ed insieme, a come ripensare e riorganizzare le nostre vite personali, sociali, ed il territorio nel quale siamo nati, vissuti, o ci siamo ritrovati a vivere.
Ho sempre pensato che in un mondo globalizzato ogni singola comunità non può essere avulsa dagli altri contesti, geografici, economici, politici, non può essere una comunità autarchica, isolata, e che quel che succede nel nord Europa, come nell’Estremo Oriente o nelle Americhe, ha sempre una refluenza nell’ambiente nel quale vivi.
Fatte queste premesse, in questi giorni sono in tanti ormai a dire che questa emergenza sanitaria, più o meno attesa, ci cambierà nel profondo, cambierà tutti i nostri ambiti relazionali, sociali, economici, lavorativi. Ma penso che dipenderà dalla durata di questa emergenza e delle relative restrizioni che ci vengono imposte ai nostri abituali stili di vita, perché se finisse domani l’allarme e tutto rientrasse nella normalità, sicuramente torneremmo a fare e a vivere esattamente come 15 giorni fa.
E allora serve veramente una riflessione profonda sui nostri vissuti, su quel che passivamente o attivamente è stato il nostro contributo alle crisi che si stanno susseguendo negli ultimi anni: dal disastro climatico, al furto dell’acqua e alla rapina delle materie prime, la distruzione delle foreste e la plastica dappertutto, la polvere di acciaieria nei polmoni dei bambini di Taranto, e potrei continuare a lungo.
E come ha scritto qualche giorno fa il giornalista Pier Luigi Sullo “l’epidemia del coronavirus sta mettendo in luce i limiti di uno sviluppo economico incentrato solo sulla crescita. Mai come ora occorre invece ripensare un diverso modello, che concepisca l’ambiente come un organismo vivo e dotato in sé di diritti.
Il Prodotto interno lordo deve crescere. Questo concetto appare indiscutibile, ma perché questa economia cresca le industrie devono continuare a produrre beni che devono essere consumati. Ci hanno dileggiato per decenni, noi che parlavamo di “decrescita”. Intendo Serge Latouche, inventore della formula, e pochi altri che avevano il coraggio di insistere, chi scriveva libri e chi, come me, ha usato un settimanale chiamato “Carta”. Medievali, penitenziali, tristi, fuori del mondo, cavernicoli. Ce ne hanno dette di tutti i colori. E ancora oggi insistono. Quale sarà la conseguenza del coronavirus sul Pil? Ecco la domanda ossessiva, il capro da sacrificare sull’altare dell’economia.
Ma quale economia? Ce lo spiegano e ripetono e ribadiscono, come qualcosa che è impensabile mettere in discussione, economisti di destra e di sinistra, politici di destra e di sinistra, parlatori televisivi di destra e di sinistra, nonché commentatori di giornale, e i giornalisti, incapaci anche solo di gettare un’occhiata al di là del muro, sempre più pericolante, dell’ovvio.
Lo schema, la piccola ideologia, è: il Prodotto interno lordo deve crescere, è il solo metro per misurare benessere (lavoro, commerci, tasse e quindi debito pubblico, concorrenza e quindi innovazione…). E perché questa economia cresca le industrie devono produrre non importa cosa, e i clienti devono consumare non importa cosa, i turisti in viaggio devono aumentare e intasare Venezia e così via… E la somma finale deve essere superiore a quella dell’anno prima, almeno un uno per cento. E a cascata lo stesso deve accadere ai bilanci delle imprese e alle casse dello stato. Di più, sempre di più.
Dopo questa analisi sul modello economico che il coronavirus sta mettendo forse definitivamente in crisi, dovrei finalmente proporre una idea sulla quale lavorare tutti insieme anche nel nostro territorio per un reale cambiamento, e penso che non c’è da inventare qualcosa di speciale, di unico, di innovativo. C’è solo da recuperare la nostra storia, riflettere su quali sono le reali risorse del nostro territorio, il patrimonio della biodiversità agroalimentare del centro Sicilia, il patrimonio storico, archeologico, artistico, culturale ed etnoantropologico, l’ambiente naturale con le sue riserve ed i suoi paesaggi, diversi dai paesaggi delle aree costiere siciliane, e lavorare sulle piccole economie a rete che possono crearsi e crescere conoscendo meglio, tutelando, valorizzando e promuovendo questo patrimonio.
Ma serve soprattutto una trasformazione di mentalità, riconsiderare le relazioni con gli altri, abbandonare protagonismi, individualismi, egocentrismi, per lavorare insieme, in simbiosi per i beni comuni, materiali e immateriali. Come ha ben detto l’arch. Maurizio Carta, “trasformare l’auspicio #andràtuttobene, che ci ripetiamo per consolarci, in #andràtuttomeglio”, e quindi cercare di far tutto meglio.
E per concludere con le citazioni di amici che seguo sempre con grande stima e attenzione, proprio oggi Bruno Contigiani, l’ideatore del movimento “L’arte del vivere con lentezza”, nel suo blog del Il Fatto Quotidiano ha scritto: “Se però dopo questa pausa forzata riprenderemo a correre più di prima, non avremo capito che se siamo arrivati a questo punto è proprio perché non abbiamo mai smesso di correre freneticamente. L’anno scorso in occasione della Giornata della Lentezza, come Vivere con Lentezza abbiamo lanciato la parola d’ordine di non aspettare che la vita ci costringesse a rallentare. Purtroppo i fatti ci stanno dando ragione. Se i nostri governanti non avvieranno un cambiamento facciamolo almeno noi, anche in piccolo …”.
Quindi il vero cambiamento nel nostro territorio dipenderà dai piccoli, anche lenti se vogliamo, passi che faremo tutti insieme, nel valorizzare e mettere a sistema il patrimonio che già possediamo, e le tante persone e piccole aziende, sopratutto dell’agroalimentare di qualità e nell’accoglienza turistica, che già singolarmente stanno costruendo percorsi di qualità e di valorizzazione dei nostri territori».
La decrescita felice è veramente la soluzione ai nostri errori di sistema? Ci ripromettiamo di tornare sull’argomento.