L’istruzione ai tempi del coronavirus. L’opinione di Marina Castiglione
Ex assessora della giunta Ruvolo, Marina Castiglione è docente di Linguistica italiana al Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università degli Studi di Palermo. Ecco il suo pensiero sull’istruzione ai tempi dell’emergenza sanitaria da coronavirus:
«Cosa sta accadendo in queste settimane? Tra allarmismi e rischi reali, tra paure individuali e collettive, tra decisioni imposte e fastidi malcelati, stiamo andando incontro al primo dramma nazionale veicolato dai social e da un’informazione poligenetica non sempre controllata e controllabile. Proprio come il COVID19. I primi giorni, come nella migliore tradizione nostrana, è sembrato valere il giudizio che Giacomo Leopardi diede degli italiani prima che si giungesse all’Unità nazionale: «Gl’italiani ridono della vita…Questo è ben naturale, perché la vita per loro vale meno assai che per gli altri, e perché egli è certo che i caratteri più vivaci e caldi di natura, come è quello degl’Italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze. Così negl’individui, così è nelle nazioni. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci.» (Giacomo Leopardi, I vizi degli italiani, in Discorso sopra lo stato presente dei costumi italiani). In questa prima fase ha giocato il solito campanile del “noi” contro “loro”, come se la ricerca di un possibile untore, popolo o singolo individuo, potesse essere la chiave risolutiva del problema. Soltanto da pochi giorni è diventato chiaro che non c’è un noi e un loro, non c’è una zona rossa e una bianca, non c’è soluzione se manca coesione sociale. Il cambiamento d’atteggiamento è intervenuto appena sono arrivate delle disposizioni più restrittive che, di giorno in giorno, hanno riguardato l’intera Nazione. Non basterà più lavarsi le mani (in questo siamo bravi!), ma bisognerà guardare ai propri movimenti, alle proprie libertà personali, come agenti di potenziale rischio per gli altri.
Scuole chiuse, innanzitutto. Già, le scuole. Quei luoghi in cui si sarebbe dovuta costruire la coscienza etica di un popolo, perché non restasse un “popolaccio”. Quelle scuole a cui si chiede ogni tipo di educazione (alla cittadinanza, all’affettività, all’ambiente, alla multiculturalità, alla solidarietà) senza alcun aumento di ore nella programmazione ordinaria. Quelle scuole che oggi, per via di dimensionamenti aritmetici, derogano dalla qualità privilegiando la quantità, di progetti extracurriculari e di “utenti”. Quelle scuole che operano in condizioni di sovraffollamento e, in genere, in violazione delle vigenti disposizioni di prevenzione incendi o in assenza di certificato di agibilità. A queste scuole, sempre pronte a dialogare con il territorio, a fornire strumenti innovativi, ad adattarsi alla riforma burocratizzante di turno, oggi si chiede di non fermarsi e di provvedere a portare avanti le attività didattiche con metodi a distanza. Nel volgere di sole 48 ore, scuole e università hanno cominciato ad attrezzare sale, popolare piattaforme con contenuti didattici, tirar fuori dai cassetti i CD allegati ai manuali, scambiarsi materiali digitali: il tutto per cercare di dare una continuità al rapporto formativo e una parvenza di normalità al tempo di 8.500.000 studenti che hanno perso la loro ordinaria cadenza. La scuola pubblica, così come il Servizio Sanitario Nazionale, devono reggere l’urto di una trasformazione accelerata, nonostante decenni di disattenzioni e smantellamenti. E devono farlo perché insieme ad altri comparti (come la giustizia e l’informazione) sono i pilastri fondamentali di un’ossatura democratica nazionale pubblica. E la scuola, come sempre, reagirà con senso di responsabilità perché chi vi opera conosce il valore del suo impegno, aldilà di uno scadente dibattito pubblico che spesso riguarda i soli dati valutativi, senza che ci si chieda se le politiche siano state adeguate al conseguimento degli obiettivi. Il rischio di questi giorni è che si divarichi la diseguaglianza tra chi ha a casa un computer, una stampante, un genitore che comunque possa seguire le attività online, e chi non potrà usufruire di questi mezzi sostitutivi. Mezzi che, comunque, non potranno compensare l’assenza di contatto diretto, dello sguardo di incoraggiamento, del confronto con i compagni, della buona didattica che si plasma minuto per minuto sulla contestualizzazione delle esigenze. Evidentemente quello del COVID19 non è soltanto un problema scientifico, ma un problema amministrativo, di politiche nazionali e di regole sociali che l’analfabetismo funzionale ha primitivizzato. Forse, in questo periodo di sospensione della normalità, c’è spazio per riflettere sull’importanza della scuola e della cultura e per assumerci nuove responsabilità e migliorare un sistema educativo che è stato tralasciato. Come ebbe a dire un non comune professore universitario «Se fosse possibile dire saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a domani, credo che tutti accetteremmo di farlo. Ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso. Si tratta di vivere il tempo che ci è dato vivere con tutte le sue difficoltà» (Aldo Moro)».